La rivolta dell’oggetto
Antropologia
della Sardegna
Introduzione di
Gaspare Barbiellini Amidei
A Iria perché…
Ai nostri figli
perché…
Per uno che scrive da Milano, da molto da troppo lontano, una
breve introduzione su questo libro sardo sulla Sardegna, ciò che
preme, assai prima di un giudizio che potrebbe essere parziale oppure
vacuo, comunque inadeguato alla materia, è un augurio che travalica lo
scrittore: che
Proprio perchè scritte da Milano, queste veloci note più che
una vera introduzione a un discorso sardo, sono un contributo, una
testimonianza, direi meglio una confessione di un'ottica che è spesso
sbagliata, che non è solo mia, ma di tutti quanti hanno, voluto dal di
fuori costringere la discussione sulla Sardegna dentro schemi, che hanno
centro altrove e che si rivelano ogni volta riduzionistici della
complessità di un mondo che per trasformarsi, per progredire, per
camminare verso una diversa vita sociale e produttiva giustamente
pretende di essere visto e considerato in tutta la sua complessità.
In questo senso le osservazioni di chi viene dal di fuori, di chi vive
fuori dal tessuto sardo e ad esso si avvicina e si è avvicinato per
motivi di ricerca, prendono forse una loro utilità solo per contrasto,
perchè servono a sottolineare quel filo rosso che corre lungo tutto il
libro di Michelangelo Pira, la prova, snodata attraverso una analisi
quasi globale della realtà sarda, della valenza non polemica, non
esclusiva, di una visione del mondo che è italiana ma è specifica che è diversa
ma non
è altra, che
rifiuta, per intelligenza
e per lacerata crescente modernità,
l'alternativa obbligata e
radicale fra un pensiero
reazionario che si chiuda in se stesso e la tabula rasa
disponibile a
una trasformazione integrale eterodiretta, vissuta come
perdita di identità e in nome di un'altra imposta identità.
In pagine documentate, ora appassionanti, ora dotte, in ricostruzioni
che si arricchiscono di molti validi contributi della scienza
socioantropologica e in particolare di chi ha scritto sulla Sardegna, in
esempi e in prospettive spesso felici, talvolta meno condivisibili (si
veda il capitolo VII a proposito di ideologie e sequestro di persona)
questo libro ci dice che il dibattito sull'isola è appesantito da un
enorme falso problema: non si tratta di scegliere fra una lingua
e un dialetto, fra una
cultura nazionale e una cultura periferica, fra una economia
veteroagricola e uno sviluppo industriale avanzato,
fra ordine patriarcale e
lotta di classe, fra città e campagna, fra popolo sardo e popolo italiano, si
tratta di riconoscere la sua intera dignità, e le sue coordinate logiche a
un modo, di partecipare a
una lingua, a una cultura, a una economia,
a uno sviluppo, a una crescita
sociale che è poi di tutto il paese.
Pira ci aiuta a intendere questo
modo, decifrando non soltanto lo specifico sardo, ma all'opposto anche lo
specifico, ottusamente etnocentrico e capitalistico, con il quale dal di
fuori si è violentato lo specifico sardo e si è impedito e si impedisce
alla Sardegna di svilupparsi non alternativamente ma autonomamente, nel
senso di conservare dentro il comune sviluppo nazionale una propria
identità.
La descrizione della rapina intellettuale, che è sempre e subito
rapina anche economica, nasce nel libro sia per contrasto dall'analisi
di tutti gli elementi della cultura sarda, rapinata e violentata sia
soprattutto dalla illuminante descrizione dello scontro fra le fonti
normative proprie e quelle meccanicamente imposte dal di fuori.
Una mezza cultura, diciamo così continentale, ci ha spesso rappresentato
l'intellíghenzia sarda tutta tesa ad esasperare la peculiarità,
l'isolanità e quasi la nazionalità della propria terra e delle proprie
radici, come se ci fosse
in Sardegna
l'ossessivo interesse a dimostrare
l'impossibilità di uno sviluppo comune a quello delle regioni
industriali, quasi che in Sardegna si volesse sostenere il valore alternativo
di codici di
comportamento e di
comunicazione inconciliabili con quelli delle altre zone dell'Italia.
Questo
libro,
come altri di cui ci si giova e
che Pira abbondantemente cita,
come tutte le più responsabilii
espressioni, della politica sarda, tende a chiarire invece
che vi
e stata dal di fuori, per errori
economici ma prima
ancora culturali,
una spinta direi alla ghettizzazione
della Sardegna, quasi si avesse,
a Roma come a
Milano, la voglia di far vedere che
Si leggano i capitoli sul conflitto fra le due
lingue e quelli
sul ruolo della scuola impropria
(ovile, cussorgia, scuola attiva e
produttiva) e della scuola dello Stato (selettiva, burocratica,
mediatrice di potere esterno).
Chi ha voluto esasperare il conflitto fino
alla eliminazione pura e
semplice di una delle due realtà da integrare,
chi ha voluto umiliare il
dibattito fino a costringere sulla difensiva
uno dei due termini
dell'esistenza, fino a obbligare a una irrazionale
anacronistica proposta solo
dialettale e solo tornante alla pastorizia?
Diceva Kafka che uno dei meccanismi più terribili e sofisticati del
male
e quello di obbligare l’uomo
a reagire secondo le regole del male stesso e non secondo
le proprie. Un certo
colonialismo economico e culturale sembra seguire questo meccanismo, quando
vuole obbligare una parte della cultura sarda a retroagire, impedendole la sua
strada naturale, che è quella di svilupparsi nell'incontro positivo con
altre culture.
L’importazione della novità, non soltanto in termini egemonici
ed esclusivi, ma anche in pratica secondo le caratteristiche della
truffa
economica, finisce per aggredire il mondo, che gli
antropologi chiamano di
verità e di menzogna, di ogni cultura tradizionale,
eliminandone all'interno la
forza della verità e raddoppiando,
con il
contributo della propria, l'altrui
carica di menzogna. E' il caso
del grande Imbroglio della
monocoltura petrolchimica, che non solo tentava di sfigurare una caratteristica
ambientale (in senso lato), ma
si .
presentava con tutti gli stigmi delle promesse (gia
ambigue) da
non mantenere.
Non ha risolto i problemi antichi,
ma
in
compenso
ne ha accumulati di nuovi, e mentre
qua e là ora alza l'insegna
del fallimento, si prepara ad affidare
ai sardi l'ingrato compito dell'amministrazione
controllata, cioè, fuori di
metafora, di uscire da un ginepraio economico-sociale
dei quale anni fa non fu chiesto alla
Sardegna di tratteggiare il disegno.
Anche qui la mezza cultura, diciamo così continentale,
ha cercato di rappresentare la denuncia dura contro questi errori come un
discorso sardo, o di una parte della cultura sarda, contro l'industrializzazione,
in difesa degli equilibri tradizionali e di ciò che restava della
civiltà pastorale. Non è vero: si trattava di favorire una
industrializzazione seria, da una parte rispettosa delle coordinate
generali (e ciò non è stato neppure riguardo alla programmazione
regionale e nazionale e alle prospettive dei mercati mondiali) e dall'altra
consapevole dello specifico, cioè delle necessità contabili e non
contabili, delle possibilità di contributo originale che il tessuto sardo
può offrire a tale industrializzazione.
Si trattava di trovare macchine valide per gli uomini, e non di ridisegnare
uomini su macchine concepite prima di conoscere gli uomini: questo non
e stato fatto. Il libro di Pira,
i libri come quello di Pira, fossero stati
letti da chi ha costruito, con i soldi dello Stato e con la facile
libertà di una immeritata investitura imprenditoriale, le cattedrali di petrolio
e di fibre sintetiche ora in pericolo di smantellamento, fossero stati letti da
chi ha ritagliato a proprio capriccio su
Conoscere è già un modo di essere.
Si è voluto invece prendere questa cultura come qualcosa di sconosciuto, da
consumare sotto vetro o da distruggere.
Ora i guasti sono sotto gli occhi di tutti.
Davanti ai guasti, ottimismo e pessimismo ci
paiono simili nella loro inautenticità.
Non è questione di speranza o di disperazione.
La questione è politica, economica e ancora una volta culturale.
Il libro felicemente ci risparmia moralismi e prediche finali.
Nelle cose, cioè nella descrizione della realtà, vissuta dall'autore con
taglio antropologico, è un messaggio implicito, non solo di Pira, un messaggio
della composita contraddittoria ora sofferta ora apparentemente statica
esistenza sarda attuale: c'è una
lotta di classe, ci sono ritardi, ci sono situazioni semimonopolistiche, ci sono
carenze
strutturali
e sovrastrutturali, come altrove.
Hanno, come loro specifico il segno di una identità.
Bisogna superare, nel momento più difficile. strozzature e
ritardi comuni alle altre realtà italiane, ma rispettando,
esaltando e non umiliando, il segno della identità.
GASPARE BARBIELLINI AMIDEI
Questo libro ha anche delle motivazioni esterne, non scientifiche
(ma che cosè poi la scienza?) e comunque non accademiche. Vuole essere
anche testimonianza di una lunga fedeltà ad alcune scelte morali e
politiche che il lettore non faticherà ad individuare.
Questo libro è dettato dal bisogno, anche personale, di mettere
ordine con strumenti critici (segnatamente quelli forniti dalla linguistica,
dalla semiotica o semiologia, dall'antropologia culturale e nel complesso
dal materialismo storico) negli effetti contraddittori di un'esperienza
incominciata una quarantina d'anni fa nella scuola elementare di un
paese della Barbagia, quando un bambino si sentì dire che il suo nome e
il suo cognome non erano quelli che credeva di sapere fin dalla nascita e
con i quali fino a quel momento era stato «chiamato» da tutti, riconosciuto e
istituito come soggetto, ma erano altri, nei quali si sentì trattare
come un alunnooggetto e nei quali faticò non poco a riconoscersi, a
reistituirsi come soggetto.
Anche il rapporto con la realtà (gli oggetti-segno e le
parole, sos sinnos) che
fino a quel momento era stato di piena fiducia reciproca,
un'attività naturale, divenne un
lavoro problematico. Gli
oggetti dell'esperienza (denominazioni e connotazioni comprese), che
fino a quel momento erano stati certi, nitidi, innocenti, si fecero difficili
da afferrare, liquidi.
Molte parole
incominciarono a tradire, a rivelarsi portatrici di significati diversi
da quelli dai quali sembravano abitate, ai quali anzi sembravano
incorporate. Nel passaggio dal
sardo all'italíano s'Inghirterra, che designava un oscuro e
pericoloso animale a forma di chitarra (chiterra) si rivelò un pezzo di carta
geografica (che in seguito è diventato a sua volta altre cose).
Persino la parola « mamma» si fece difficile e ambigua per chi
era abituato a dire « mama ». (Peccato che nella polemica estiva del 1977
sulle scritture difficili aperta da Franco Fortini, nessuno si sia
ricordato di osservare che tutte le parole - anche la parola pane - sono
difficili, sono una conquista dell'uomo che è uomo in quanto creatore di
segni).
A questa scoperta se ne associarono altre ancora più
dolorose.
Che il figlio del maestro elementare e
il figlio dell'esattore - i soli
che erano approdati alla
scuola avendo l'italiano come lingua materna
- erano buoni, intelligenti, in regola con quel che la scuola
chiedeva,
amati dalla maestra, destinati a
comandare sugli altri e legittimati a
mantenere la loro identità (compresi il nome e cognome
che avevano avuto alla nascita).
Tutti gli altri (il bambino di cui parlo compreso) erano cattivi,
nel senso etimologico,
prigionieri, perché tutti i loro codici a cominciare da quelli linguistici,
erano banditi dalla scuola e perciò non potevano porsi come liberi
di agire e di parlare (ben a ragione Manlio Brigaglia a proposito della
lingua italiana dello scrittore sardo Gavino Ledda ha parlato di
«lingua prigioniera»).
E inoltre - altra scoperta decisiva - che la scuola ufficiale non
insegnava a mungere meglio le pecore, né ad aiutarle a figliare con
minore sofferenza, né a catturare le lepri, né insomma a capire e
migliorare il proprio ambiente e la propria cultura, ma (a parte cose
utili come il leggere, lo
scrivere e il far di conto) insegnava cose insensate come ad amare il
re d'Italia e il duce del fascismo.
Insomma era una scuola fatta per il figlio del maestro elementare e
per il figlio dell'esattore, non per i figli dei pastori.
Esperienze come queste e altre costituiscono un corpus, del quale
si ha generalmente una conoscenza soltanto esecutiva, per averle vissute
direttamente e con mediazioni narrative.
Ma questo libro non è un romanzo, anche se in qualche caso si è
fatto ricorso a elementi narrativi.
Dei quali l'autore non chiede scusa, perché
- almeno nelle sue
intenzioni - dovrebbero funzionare da
pista di decollo verso una conoscenza non più esecutiva ma critica del
corpus che si diceva. Uno degli obiettivi è appunto quello di promuovere
il passaggio dalla conoscenza esecutiva alla conoscenza critica, dalla
conoscenza che il bambino ha della lingua materna e dei codici del suo
gruppo alla conoscenza che di quella lingua può
avere il glottologo e di
quei codici il giurista, il semiologo, l'antropologo.
La
rivolta della quale si parla ha dunque una lontana
radice
esistenziale.
Nasce da un progetto, coincide con un programma che
chiunque venga
strappato alla sua cultura d'origine e alle
solidarietà
del suo gruppo etnico e/o sociale, o veda quella e questo
umiliati e
offesi, si porta dentro (se non ì un
«cencio
inamidato»
come
diceva Gramsci), più o meno consapevolmente,
per tutta la vita: un
progetto di rivincita e di riaffermazione della dignità
della
propria cultura di origine; un progetto di rovesciamento
della
sorte che aveva fatto della propria
cultura e della propria gente
degli oggetti storici, folklorici, da
usare appunto come oggetti.
Ora che a subire la lacerazione e la mutilazione culturale
e ad
averne coscienza non sono più soltanto
pochi intellettuali, ma sono
grandi masse popolari, di uomini e
donne costretti a migrazioni
bibliche e a riciclaggi dolorosi e
alienanti,
quel progetto si sviluppa
in programma di rivolta: è già una
rivolta.
Questo è un rapporto sugli effetti dello scontro fra culture diverse.
La cultura è qui definita dagli strumenti del comunicare
e del produrre (assunti come
omologhi); dai rapporti esistenti tra
le sue fonti normative
(produttive e educative) e perciò dal modo in cui gli strumenti sono
distribuiti; dai codici, ovvero dalle regole
con cui gli strumenti vengono
usati; e infine dai messaggi più frequenti e cioè dall'uso concreto che
le fonti normative fanno sia degli strumenti sia dei codici (del potere
di cui dispongono).
Inoltre: poiché una cultura scopre e rivela la propria identità,
i propri tratti distintivi quando entra in contatto con un'altra, si
cerca di vedere che cosa accade quando una delle più antiche
culture mediterranee
(pastorale, egualitaria, fredda, orale, chiusa fino
a ieri in villaggi che erano
universi e in parentele che erano nazionistato) entra in contatto
profondo e intenso con culture altre,
aggressive e massificanti.
Gran parte del libro è dedicata all'analisi del bilinguismo, delle
implicazioni dei conflitti tra fonti e
tra codici che oggi dilaniano
l'uomo e la società. Si
guarda agli eletti e alle prospettive
convergenti
della rivoluzione sociale e
della simultanea rivoluzione
tecnologica; e si individua
la possibilità-necessità di saldare il
principio
educativo-produttivo della scuola
impropria neolitica con la regola
benedettina (ora et labora)
e col punto decimo del
Manifesto comunista,
con la concezione gramsciana dell'intellettuale organico
e con
le acquisizioni
di altre ricerche del pensiero
democratico e della prassi
rivoluzionaria e dunque, con la
rivolta delle classi strumentali e subalterne e dì interi popoli oppressi, fino
a ieri «oggetti».
A differenza di altri studi sulla cultura sarda, quest’ultima viene
assunta non come folklore bensì come cultura tout court; e vengono
privilegiati non gli aspetti statici cari allo sguardo etnologico, ma
i problemi del contatto studiato dall'antropologia critica e dinamista,
non soltanto con riferimento ai conflitti fra la cultura sarda nel suo
complesso e le culture esterne, ma anche con riferimento ai conflitti
interni alla cultura isolana.
Quest’ultima svolge non soltanto un ruolo di «cultura osservata». ma
anche quello di «cultura osservante », capace di dare risposte proprie ai
problemi nei quali e coinvolta.
Le griglie di analisi usate con maggiore impegno, come si accennava, sono quelle
offerte dal materialismo storico e dagli sviluppi
della linguistica e della semiologia.
Nel panorama delle ricerche italiane
si
sono tenute presenti
soprattutto
quelle antropologiche esplicitamente connotate dal marxismo e in
particolare dalla lezione
gramsciana (da Lanternari
a Cirese, da Pigliaru
a Lombardi Satriani) e quelle linguistiche e semiologiche (da Tullio De
Mauro a Luigi Rosiello,
da Ferruccio Rossi Landi a Umberto Eco).
Ma il libro risulta attraversato anche dalle acquisizioni
dell'antropologia francese (Lévi-Strauss, Godelièr, Balandier), della
storiografia della «lunga durata» (Braudel e autori della rivista «Annales»),
delle ricerche linguistiche europee e statunitensi, e dalle ipotesi
della scuola di Toronto (McLuhan) sugli strumenti del comunicare.
Le tesi di fondo - che sono espresse con esplicitazioni persino
ridondanti - possono trovare verifica
anche in altre regioni. lo
ho
scelto
Inoltre:
Il paese scelto, Bitti, è quello al quale si accennava all'inizio e
nel
quale sono nato e ho inteorizzato la
cultura sarda. È un paese di
frontiera culturale, a due passi da Orune, dove Pigliaru aveva
rilevato il codice della vendetta
barbaricina (una scoperta, per la
cultura italiana). L’ho scelto per
proseguire, oltre che il discorso di
Antonio Pigliaru, anche quello svolto
da Bachisio Bandinu e da
Gaspare Barbiellini Amidei con il
loro «romanzo di cose», Il re è un feticcio,
che è il
risultato di un'inchiesta effettuata proprio a Bitti.
Se l'oggetto teorico, astratto, di cui si parla è l'oggetto antropologico,
i soggetti concreti della rivolta contro la cultura osservante,
manipolante, sottosviluppante e
folklorzzzante sono la società
pastorale,
la classe operaia sarda, la famiglia,
la scuola
impropria
e le
loro
risposte ai problemi aperti nel nostro tempo dal
contatto
fra
le culture. Dunque nessun
privilegiamento del folklore
e tanto meno
della folklorizzazzione. Non per caso vengono assunte
come figure
orientative della cultura sarda quelle di Antonio Gramsci
e
di Emilio Lussu.
Devo un pubblico ringraziamento ai molti amici
con
i
quali in
questi
anni ho parlato della scuola impropria produttiva,
del sequestro
di persona, di lingua, di
poesia e di diritto sardi, e
in
definitiva
della crisi culturale che travaglia
Un particolare ringraziamento
devo a Manlio Brigaglia,
che
non
solo è
stato prodigo di consigli e
osservazioni ma si è anche
prestato
alla revisione del testo a stampa; a mio figlio Stefano,
che mi ha
aiutato nella correzione delle bozze e ha compilato
l'indice
dei nomi;
ai colleghi della facoltà di Scienze Politiche
dell'Università
di Cagliari a cominciare da Tito Orrù, responsabile
del
settore pubblicazioni.
Michelangelo Pira
Capitana,
25 settembre 1977